Decidere al meglio e con rapidità –
Scegliere significa quasi sempre esporsi a situazioni d’incertezza e, decidere per una soluzione piuttosto che per un’altra obbliga l’individuo ad accettare l’idea che esista una condizione di ambiguità. Si può optare per una scelta con la consapevolezza dei suoi vantaggi, sempre tenendo presente anche gli eventuali effetti non desiderati. È nella natura stessa dell’atto di decidere il dover fare i conti con l’insicurezza e l’assenza di univocità.
Gli studi in antropologia mostrano che il timore di assumersi la responsabilità delle decisioni importanti sia una caratteristica tipicamente umana, al di là della cultura, del ceto sociale, della ricchezza o del potere, e corrisponda al naturale e irrazionale effetto della paura e dell’ansia. Si ritiene sia una condizione influenzata dai processi evolutivi, sviluppata dall’uomo nel corso dei millenni grazie alla capacità di accrescimento del controllo sulla natura e sugli eventi.
Oggigiorno il progresso costante della tecnologia ha agevolato enormemente la connessione globale di informazioni e l’aggregazione sociale tra persone annientando tutte le barriere. Emerge chiaramente l’evidenza che le opportunità di scelta siano gradualmente e sensibilmente aumentate per l’uomo comune: ciò ha permesso un incremento evolutivo e funzionale della struttura sociale, è accresciuta la sensazione di libertà ma al contempo si è complicata la capacità di operare delle scelte e quindi di prendere decisioni. E non si sta facendo riferimento alle azioni che ciascuno ripete ogni giorno svariate volte, come ad esempio cosa indossare la mattina quando ci si alza, cosa mangiare o acquistare, ma a situazioni più complesse, come spesso accade quando si prendono decisioni nella sfera professionale. Il contesto che qui si vuole trattare è relativo alle persone che rivestono ruoli sociali che “contano”. La cornice di riferimento è quella dei LEADER, DIRIGENTI, MANAGER, lavoratori che hanno a che fare costantemente con la responsabilità degli altri, con la necessità di delegare i collaboratori e con l’incombenza di dover decidere al meglio e con rapidità.
Al sapere aggiungiamo il fare.
Naturalmente le competenze necessarie, le conoscenze contestualizzate agli specifici ambiti decisionali, le capacità di problem solving e decision making, dovranno essere estese dalla dimensione del sapere alla dimensione del saper fare, ovvero, dal possedere competenze teoriche al disporre di abilità concrete impiegabili efficientemente ed efficacemente nella pratica. Questa distinzione è determinante quando ci si trova davanti a un problema perché la tendenza delle persone è cercare la spiegazione (le cause) invece della soluzione. Lo svantaggio di concentrarsi unicamente sulla spiegazione di un problema rischia di essere fuorviante e di fondarsi su una conoscenza aprioristica (premesse personali come schemi, categorizzazioni, attribuzioni, inferenze ed euristiche). La soluzione necessita prima della spiegazione? No, è nella soluzione che il problema viene svelato, spiegato e risolto. Assumere questo particolare punto di vista aiuta a emancipare la mente cosciente dai limiti del pensiero lineare (il pensiero causale), sganciandosi dalle conoscenze passate e dalla trappola “se ha funzionato in passato funzionerà anche stavolta” (problemi simili in tempi diversi quasi mai richiedono le stesse soluzioni) aprendo la strada a orientamenti pratici, concreti e rivolti a considerare la soluzione nel presente, tralasciando le cause passate originanti il problema.
Parafrasando le parole del filosofo Emil Cioran, quando ci si trova di fronte a un problema ecco svelarsi un mistero, il quale a sua volta è svelato dalla sua soluzione.
Quali meccanismi si mettono in moto durante la valutazione di “cosa sia meglio fare”? Cosa succede quando, prima di prendere una decisione, ci si affida al problem solving e decision making? E quali differenze ci sono tra i due processi?
Il problem solving è una metodologia di strategie per raggiungere gli obiettivi. Rappresenta essenzialmente la capacità di identificare un problema in un contesto entro il quale il percorso verso la soluzione non sia direttamente evidente. Consiste nell’avviare una serie di azioni riflessive, quindi chiaramente coscienti, dirette verso un obiettivo non raggiungibile per mezzo di metodi abituali. I passaggi necessari per attuare una metodologia efficace nella risoluzione dei problemi sono essenzialmente quattro:
- Prima fase (osservativa): identificazione del problema, delle risorse e dell’obiettivo;
- Seconda fase (creativa): ideazione di soluzioni possibili e formulazione di ipotesi;
- Terza fase (pragmatico-realistica): le idee diventano progetti d’azione, si concretizza la fase creativa;
- Quarta fase (formativa): esecuzione pratica della fase tre e valutazione dei risultati. L’atteggiamento mentale è operativo, esecutivo.
Decision making, invece, significa possedere le capacità di individuare la soluzione a un problema, o meglio, il processo cognitivo che conduce l’individuo a riconoscere e selezionare l’alternativa più adeguata per approdare alla soluzione migliore apparentemente possibile. A ben vedere è una fase intrinseca e, a mio avviso, indissolubile dal processo di problem solving, e si manifesta esplicitamente quando si materializza la possibilità di raggiungere l’obiettivo. È il momento in cui si decide quale sia la soluzione più efficace tra le varie alternative possibili, ossia, che più si avvicina all’ottimizzazione dei benefici e minimizzazione degli ostacoli.
Se ne deduce che problem solving e decision making siano strettamente correlati alle caratteristiche personali del decisore e in particolare con alcune variabili: lo stile cognitivo (disposizione all’analisi razionale e selettiva, capacità d’intuizione) e la personalità (valori individuali e propensione al rischio).
Se una persona volesse davvero fare una scelta completamente razionale dovrebbe aver prima esaminato in dettaglio tutte le variabili possibili e aver infine scelto traendo conclusioni strettamente logiche (e qui si entra nel campo della Teoria dei Giochi tralasciando affatto la funzione emotiva). Ma nella realtà questo non accade mai, e piuttosto si decide attraverso le cosiddette euristiche, ovvero attraverso scorciatoie cognitive che portano a decidere secondo l’impressione generale che ci si è fatti, semplificando così il processo decisionale, quindi agendo in modalità sostanzialmente intuitiva non appena ci si è fatti l’idea di aver trovato una qualche opzione soddisfacente.
Le ricerche neuroscientifiche mostrano che circa l’80% dell’attività dell’essere umano avviene al di fuori del dominio del pensiero cosciente. Si conferma così l’ipotesi che la “mente primitiva”, quella istintiva (paleocortex), sia alquanto refrattaria all’essere influenzata dalla “mente moderna” (neocortex), sede dei processi cognitivi coscienti.
Serve anzitutto essere in grado di riconoscere e gestire le proprie emozioni primitive, la più importante delle quali è la paura, e contestualmente possedere le adeguate conoscenze per adempiere al meglio al compito stabilito. Si pensi, ad esempio, alla paura di prendere una decisione tra diverse opzioni che sembrano ugualmente valide.
Tra le varie forme di paura che ostacolano la presa decisionale, sembra che la più frequente sia la paura di sbagliare, ed effettivamente chi riveste ruoli di alta responsabilità si espone a forti carichi stressogeni; il dubbio di decidere nel momento sbagliato o commettere errori di valutazione a volte si dimostra intollerabile e può innescare, di conseguenza, comportamenti di resa. Quando invece l’individuo non beneficia di una buona autostima la capacità nel prendere decisioni è inibita dalla paura di non sentirsi all’altezza e dal peso della responsabilità sugli effetti ipotizzati. Anche chi vive con la paura di perdere o non avere il controllo dei propri pensieri o delle reazioni agli eventi soffrirà nel momento in cui dovrà prendere una decisione. E quando è necessario decidere per qualcosa che poi dev’essere comunicato o condiviso con gli altri? Pronta all’agguato potrebbe esserci la paura di esporsi al giudizio altrui.
Considerato che la paura fa parte delle emozioni arcaiche della specie umana, insieme alla rabbia, il dolore e il piacere, essa non può essere eliminata e diventa disadattiva se rifiutata; sembra utile, invece, apprendere come renderla vincente, trasformandola in una risorsa vantaggiosa: ecco dunque cosa significa “imparare a riconoscere, accettare e gestire la paura”.
Tornando alla questione del “peso” derivante dall’assunzione della responsabilità decisionale, lo stress è sicuramente un elemento determinante. Negli ambienti dirigenziali, manageriali e di comando in generale, lo stress è comunemente associato alla pressione emotiva, all’eccesso di responsabilità e di fatica, alla mancanza di tempo libero e di momenti di relax, e corrisponde all’opprimente sensazione del “non staccare mai la spina”. Questo insieme di condizioni spesso genera complicazioni a livello fisiologico poiché riduce sensibilmente l’alternanza tra stati di stress (l’eustress, o stress buono, necessario per ottenere buone prestazioni) e stati di rilassamento, fondamentali per il recupero. L’organismo umano è strutturato in modo da percepire le differenze e i contrasti dei vari stati: se lo stimolo a cui è sottoposto rimane costante e non varia, la percezione si intorpidisce e perde sensibilità e capacità di discriminare, infine il livello di tensione non riesce a variare e ad abbassarsi. La tendenza diventa quella di avvicinarsi progressivamente a uno stato amorfo, che nell’essere umano è più facilmente traducibile in uno stato privo di personalità, di alienazione.
Ciò che ne deriva è che la frustrazione determinata dalla paura di prendere una decisione, nelle sue varie forme, non sia rappresentata dalla situazione oggettiva in sé, oppure sia direttamente proporzionale alla rilevanza della scelta; sembra più una percezione individuale del decisore, che interessa le caratteristiche personali e la dotazione individuale delle competenze acquisite. In altre parole, la maniera in cui un individuo costruisce il proprio modo di pensare e agire nei confronti degli altri e dell’ambiente circostante (in pratica le proprie credenze) si esplicita nella premessa di quanto esso potrebbe subire in seguito a una scelta errata, un po’ come scavarsi la fossa nella quale si andrà a cadere.
Quali sono allora le componenti necessarie per gestire al meglio le decisioni? Sintetizzando possono essere descritte in quattro punti:
- dimensionare le proprie conoscenze al livello richiesto dalla complessità della scelta;
- saper trovare le soluzioni più adatte agli eventuali problemi e riuscire a metterle in pratica;
- Convincere se stessi e gli altri della validità delle scelte e delle decisioni prese;
- Imparare a gestire le varie forme in cui si manifestano le frustrazioni della paura di decidere.
Praticamente si tratta di destreggiarsi e padroneggiare contemporaneamente funzioni di pensiero, emozioni e azioni. L’insieme delle funzioni cognitive di alto livello favoriranno a loro volta l’integrazione e la condivisione equilibrata con la sfera emotiva, assicurando in tal modo il buon funzionamento generale e una migliore capacità decisionale.
Concludendo, se è vero che è nel problema che si cela la soluzione, varrebbe allora la pena pensare di riorganizzazione l’esistenza in funzione di un più equilibrato approccio alla vita, contando su una rassicurante visione pragmatica capace di orientarsi verso strategie e soluzioni più idonee. Facilitare la separazione dei periodi lavorativi, in cui i livelli di pressione e responsabilità sono alti, dai momenti da dedicare a se stessi, alla famiglia, amici, sport, hobby e relax, significa imboccare un sentiero che conduce a un miglioramento del benessere generale, avvicinandosi così alla condizione di mens sana in corpore sano. A questo aggiungiamo, come già detto, un valido metodo per trovare soluzioni estendendosi dal sapere (conoscenza teorica) al saper fare (capacità operativa).
Articolo pubblicato su Milanoplatinum.
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